FURIO COLOMBO: RIFORMA DA BUTTARE

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INES TABUSSO
00domenica 25 giugno 2006 15:22

L'UNITA'
25 giugno 2006
Riforma da buttare
di Furio Colombo

Sì, la “Riforma della Costituzione” è tutta da buttare. Lo dico per rispondere a persone di buona volontà che pensano, mitigando il giudizio sulla Bossi-Berlusconi, di rendere meno difficili i rapporti con l’opposizione. Ma è un’opposizione insultante che si indigna solo per le intercettazioni del loro mondo illegale e immorale, minaccia i Giudici ma non mostra la minima intenzione di cambiar vita. Esige solo di non essere colta con le mani nel sacco quando umilia la ragazzina della Rai, trucca le slot machines, e si accaparra i finanziamenti per le sue cliniche.
Come molte delle cose fatte dalla Casa delle Libertà, la “Riforma” è tutta da buttare perché è illegale: cambia la forma di governo che la Costituzione vieta di cambiare.
La “Riforma” è tutta da buttare perché pone fine al sistema sanitario nazionale, istituisce sistemi regionali e con risorse immensamente disuguali, dunque frantuma e nega l'uguaglianza dei cittadini.
La “Riforma” è tutta da buttare perché istituisce polizie regionali senza codici o leggi o giudici o funzioni di riferimento. Dunque, bande armate a disposizione di chi, di volta in volta, controlla le regioni senza alcuna indicazione possibile di uso che non sia politico. Le polizie regionali saranno fatalmente un corpo di migliaia di uomini, mezzi e impianti moltiplicati per ogni Regione, moltiplicati per anni, con un aumento di spesa che si mangerà fin dai primi mesi tutto l’eventuale risparmio del tanto vantato (piccolissimo) taglio di parlamentari (solo 200 su mille).
La “Riforma” è tutta da buttare perché il boss di questa riforma è l’uomo che ha intimato agli italiani di gettare il Tricolore nel cesso. E che minaccia azioni di rivolta in caso di sconfitta.
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Mi dispiace di avere letto sui giornali del 23 giugno una frase di Prodi che vorrei non fosse stata mai pronunciata: «votare No, e dopo ridurremo i parlamentari a 400» (Corriere della Sera); «vince il No e poi tagliamo i parlamentari» (La Stampa); « se vince il No taglieremo i parlamentari» (La Repubblica).
Mi dispiace, perché questa frase dalla intenzione benevola rischia di scivolare in due equivoci.
Il primo, che vi sia qualcosa di buono e di salvabile nella Riforma Costituzionale Bossi-Berlusconi. Ricordiamo che è il frutto sgrammaticato e pericoloso di un patto segreto fra i due, depositato da un notaio, sconosciuto agli italiani e - con stile più tipico di un thriller di malavita, che di due statisti democratici e responsabili - sigillate da un giuramento sulla testa dei figli. Erano i tempi, non dimentichiamo, in cui La Padania giornale allora diretto da Bossi, pubblicava ogni giorno dettagliate accuse di mafia a Berlusconi. Quelle accuse sono immediatamente cessate dopo il patto. E dopo il patto è iniziato il lavoro dei “quattro di Lorenzago” (il team più squalificato nella storia pur non brillante delle riforme italiane) e poi il voto blindato dei protagonisti e complici della Casa delle Libertà.
Il secondo equivoco è l’impressione che la “Riforma” Bossi-Berlusconi sia, certo, da respingere per ragioni di merito. Ma, come in tutte le cose di questo mondo, c’è chi è d’accordo e chi no, intorno a un documento che però è rispettabile.
Sentite che cosa dicono di questo documento Gustavo Zagrebelsky, Andrea Manzella, Francesco Paolo Casavola (la Repubblica, 23 giugno): «il pacchetto di modifiche costituzionali della Casa delle Libertà rischia di minare il funzionamento delle Istituzioni. La riforma del Polo, passata con la formula della revisione costituzionale prevista dall’art. 138 della stessa Carta, è illegittima. Il testo da loro approvato (e ora proposto al SI o al NO dei cittadini) mira a cambiare la forma di Stato e di Governo, ma così facendo viola l’art. 139 della stessa Costituzione che recita: “la forma Repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Passare dal Governo parlamentare al premierato che non ha contrappesi né nel Presidente della Repubblica né nel Parlamento non si può con revisione costituzionale perché la Costituzione lo vieta».
Sentite che cosa ha detto, appena due giorni fa, l’ex Presidente Ciampi: «il premierato forte significa l’uscita dal principio delle democrazie costituzionali, secondo cui ogni potere è bilanciato da un altro potere. Il disegno pseudo-riformatore mira solo a scambiare per Costituzione una autorizzazione a governare per interessi congiunturali o particolari».
Aggiunge: «quel testo non è mai passato al Quirinale. È stato pubblicato direttamente sulla Gazzetta Ufficiale. Se fosse passato sulla mia scrivania non avrei esitato ad opporre il mio No alla promulgazione dello ennesimo strappo voluto dal Centrodestra, dopo la Gasparri sulle Tv, la Castelli sulla Giustizia e la Cirielli sulla prescrizione» (intervista di Massimo Giannini, La Repubblica, 23 giugno).
Ricordate quanto ha detto e ripetuto il Presidente Napolitano fin dal primo giorno della sua elezione: «la Costituzione così come è stata formulata, approvata e promulgata dai padri costituenti è il nostro solo punto di riferimento, di dettato giuridico e di ispirazione morale». Dobbiamo dunque confrontare le parole più alte e competenti della scienza giuridica del Paese (tutti i costituzionalisti italiani, quasi senza eccezione) e le voci che rappresentano e hanno rappresentato la Repubblica (Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano) con le voci di Calderoli, di Bossi, di Berlusconi, ovvero di coloro che per cinque anni si sono associati nelle peggiori iniziative per diffamare l’Italia nel mondo, degradare l’immagine del Paese, gettando nel frattempo la nostra economia in un precipizio dal quale - senza di loro - ci salveremo, ma da cui non abbiamo ancora ricominciato a risalire.
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È clamorosamente evidente che non abbiamo nulla da spartire con chi ha violato e manomesso con tanto accanimento le leggi esistenti, con chi ha vandalizzato la Costituzione, per rispondere agli interessi aziendali e giudiziari di Silvio Berlusconi, al ricatto leghista di Bossi, al bisogno dei post-fascisti di liberarsi della memoria antifascista e resistenziale rappresentata in modo chiarissimo, e non solo simbolico, dalla Costituzione Repubblicana articolo per articolo. I “quattro di Lorenzago” privi di competenza ma anche di un minimo di cognizione del livello alto, coerente, omogeneo e limpido della Costituzione italiana, si sono buttati a decidere che il Governo sarebbe stato tutto nelle mani del Primo Ministro, con i ministri tenuti come ostaggi e il Parlamento succube; che la scuola italiana si doveva spezzare in tante scuolette locali, ciascuna con i suoi testi, i suoi dialetti e il suo modo di studiare non più la storia del Paese e del mondo, ma la storia riscritta da qualcuno del posto per far contento il gerarca locale di riferimento. In un’altra parte del disastroso testo malamente riscritto hanno deciso che l’Italia, già tormentata dal malaffare della sanità, diventava tutta sanità locale, esposta più che mai al malaffare; e, ancora, che il Presidente della Repubblica non doveva contare nulla, neanche come simbolo e dunque o si piegava a fare da portavoce della maggioranza o c’era la libertà d’insulto (una mancanza di cui Berlusconi e i suoi hanno patito molto ai tempi di Ciampi).
Per capire il sommo livello di incompetenza dei “quattro di Lorenzago”, basti fare riferimento all’articolo 70 della Costituzione, quello della Carta del 1948 e quella dei dipendenti della impresa di demolizioni Bossi-Berlusconi. Ecco l’art. 70 della nostra Costituzione che vogliamo e dobbiamo salvare: «L’attività legislativa è svolta dal Parlamento italiano, che si compone di Camera e Senato».
Leggete ora il testo scritto in quella triste vacanza di montagna da quattro persone del tutto ignare della materia trattata e, come si vede, anche privi di controllo della lingua italiana: «La Camera dei deputati esamina i disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte della Camera, a tali disegni di legge il Senato federale della Repubblica, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali la Camera decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge.
Il Senato federale della Repubblica esamina i disegni di legge concernenti la determinazione dei princìpi fondamentali nelle materie di cui all’articolo 117, terzo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte del Senato, a tali disegni di legge la Camera dei deputati, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali il Senato decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge.
La funzione legislativa dello Stato è esercitata collettivamente dalle due Camere per l’esame dei disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, lettere m) e p), e 119, l'esercizio delle funzioni di cui all'articolo 120, secondo comma, il sistema di elezione della Camera dei deputati e per il Senato federale della Repubblica, nonché nei casi in cui la Costituzione rinvia espressamente alla legge dello Stato o alla legge della Repubblica, di cui agli articoli 117, commi quinto e nono, 118, commi secondo e quinto, 122, primo comma, 125, 132, secondo comma, e 133, secondo comma. Se un disegno di legge non è approvato dalle due Camere nel medesimo testo i Presidenti delle due Camere possono convocare, d'intesa tra di loro, una commissione, composta da trenta deputati e da trenta senatori, secondo il criterio di proporzionalità rispetto alla composizione delle due Camere, incaricata di proporre un testo unificato da sottoporre al voto finale delle due Assemblee. I Presidenti delle Camere stabiliscono i termini per l'elaborazione del testo e per le votazioni delle due Assemblee.
Qualora il Governo ritenga che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all’esame del Senato federale della Repubblica ai sensi del secondo comma, siano essenziali per l'attuazione del suo programma approvato dalla Camera dei deputati, ovvero per la tutela delle finalità di cui all'articolo 120, secondo comma, il Presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo ministro ad esporne le motivazioni al Senato, che decide entro trenta giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è trasmesso alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte.
L’autorizzazione da parte del Presidente della Repubblica di cui al quarto comma può avere ad oggetto esclusivamente le modifiche proposte dal Governo ed approvate dalla Camera dei deputati ai sensi del secondo periodo del secondo comma.
I Presidenti del Senato federale della Repubblica e della Camera dei deputati, d’intesa tra di loro, decidono le eventuali questioni di competenza tra le due Camere, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti, in ordine all’esercizio della funzione legislativa. I Presidenti possono deferire la decisione ad un comitato paritetico, composto da quattro deputati e da quattro senatori, designati dai rispettivi Presidenti. La decisione dei Presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede. I Presidenti delle Camere, d’intesa tra di loro, su proposta del comitato, stabiliscono sulla base di norme previste dai rispettivi regolamenti i criteri generali secondo i quali un disegno di legge non può contenere disposizioni relative a materie per cui si dovrebbero applicare procedimenti diversi».
Il lettore deve sapere che quanto scritto in questo articolo - che usa novecento oscure parole incoerenti per sostituire quattordici chiarissime parole del testo votato nel 1948 - è tutto vero, anche se la Rai ce lo ha tenuto accuratamente nascosto in ogni scheda o programma dedicato al referendum.
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È evidente che la “Riforma Costituzionale” commissionata per ragioni non nobili da Bossi-Berlusconi (uno voleva potere vasto e vendetta sui Giudici, l’altro voleva la secessione, ma con potenti complicità nel Sud (vedi Totò Cuffaro) capaci di far tacere o di soggiogare il legittimo rigetto dei cittadini) non riguarda gli italiani in alcun punto o dettaglio perché si muove tutta nella logica di un ricatto reciproco che discende dal patto segreto Bossi-Berlusconi con atto del notaio e giuramento sulla testa dei figli.
Ogni riferimento a eventuali punti di vera riforma che potrebbero essere discusse insieme da un vero Parlamento, senza ricatti e senza colpi di maggioranza, è puramente casuale.
Perciò occorre, tenere nettamente separati i due percorsi.
Uno è dire No pieno, deciso, definitivo, all’umiliante “trattato di Lorenzago”, anche allo scopo di espellerlo dai nostri libri di storia (in quelli di diritto costituzionale non sarebbe entrato mai). L’altro è quello di proseguire nel lungo lavoro (che, come nelle grandi cattedrali non finisce mai) di manutenzione di quel documento fondante della democrazia italiana che è la nostra Costituzione. Quel che dobbiamo fare, andando a votare NO oggi e domani, è di impedire che la nostra Carta Costituzionale sia manomessa da chi ha intimato di gettare il Tricolore nel cesso. Altrimenti quella intimazione continuerebbe a pesare su un’Italia degradata.
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